Leo Matteucci era nato a Forlì 88 anni fa, il 25 giugno 1925. Era il terzo di cinque fratelli, (3 maschi e due femmine). Il padre Alessandro era un fervente repubblicano, fede politica condivisa anche dalla moglie Giussi Malvina e trasmessa ai figli.
In una breve “autobiografia” scritta per la rivista “Confini” edita dal Ponte Vecchio di Cesena, così descrive la sua infanzia: “Sono sempre stato in questa città. La mia era una famiglia numerosa, mio padre era muratore e pompiere volontario, mia madre casalinga. Come capitava alla maggior parte dei ragazzi della mia generazione, finite le elementari, si doveva trovare subito un lavoro, e così fu anche per me. Cominciai come fattorino da un fiorista, poi, a 14 anni, quando mi venne rilasciato il libretto di lavoro, fui assunto come manovale carpentiere da un’impresa da costruzioni, dove rimasi per due anni; successivamente seppi che cercavano un fattorino al sindacato dei commerci, mi presentai e venni assunto.
Nel 1942, a 17 anni, conobbi una ragazzina della mia stessa età [Maria Monti] ci piacemmo e forse doveva essere così, perché dopo 70 anni siamo ancora insieme”.
Dopo l’8 settembre 1943, come altre centinaia di migliaia di giovani, donne e uomini, fu coinvolto nella resistenza all’occupazione tedesca e al governo della Repubblica sociale italiana.
Nei giorni immediatamente successivi l’8 settembre 1943, il fratello maggiore, Alfiero, fu uno dei primi partigiani e il 23 ottobre 1943 difese la base di Val della Chiara dal primo rastrellamento tedesco e fascista della provincia di Forlì.
Nel 1944 Leo fu catturato dai tedeschi e tradotto a costruire le fortificazioni sulla Linea Gotica. Riuscì a fuggire e rientrò in pianura grazie alla solidarietà delle famiglie contadine, proprio le più povere. Raccontava sempre agli studenti – durante il periodo di presidenza dell’ANPI – che sulla via del rientro in città si fermò in una casa che dimostrava gli stenti e le privazioni dei suoi abitanti, nonostante ciò ricevette due uova con un po’ di pancetta rancida. Alla sua richiesta di quanto doveva gli fu risposto che “i poveri il pane non se lo fanno pagare”. Una solidarietà umana che Leo non avrebbe mai dimenticato.
Dopo la liberazione di Forlì avvenuta il 9 novembre 1944, fu impegnato nella lotta al mercato nero e contro gli speculatori. Di seguito riportiamo integralmente l’intervento fatto al convegno su Ricostruzione /Ricostruttori tenutosi nel Salone Comunale di Forlì dal 17 al 19 novembre 1999.
“Francamente ero un po’ preoccupato perché non sapevo come avrei potuto inserire nella discussione la mia testimonianza, poi invece ascoltando sia l’intervento dell’onorevole Servadei, sia l’intervento di Proli, mi sono reso conto, che ci poteva stare. La mia è una testimonianza sui servizi ispettivi per la distribuzione, l’approvvigionamento e la distribuzione della derrate alimentari dopo la guerra. Io sono entrato in questo servizio un po’ tardi perché i primi mesi appena finita la guerra, per noi forlivesi il 9 novembre 1944, li ho passati in un ospedale indiano. Ero stato assunto a lavorare nell’ospedale che si trovava nel palazzo Albicini. Al piano terra erano state allestite quattro sale operatorie, e hanno funzionato fino alla fine della guerra. Ecco, non vi dico, perché è indescrivibile, quale fosse l’afflusso dei feriti, specialmente per la battaglia del Senio, per lo sfondamento del fronte proprio negli ultimi giorni di guerra. Voglio fare una considerazione ed è questa: io credo che tra tutti i soldati alleati che abbiamo avuto qui nella nostra provincia, i soldati indiani siano quelli che si sono comportati nel modo più corretto, più educato, più cordiale. Non voglio fare differenze ma questo è vero. Ed un’altra considerazione, mi colpì allora e ci penso ancora, la tolleranza che avevano fra di loro, pur appartenendo a diverse religioni, c’erano mussulmani, indù, sic, c’erano i gurca del Nepal, però tra di loro non ci sono mai state discussioni, ognuno celebrava i propri riti. Finita quella attività, passai al servizio Sepral, la sezione provinciale d’alimentazione. Qui sono stati ricordati i problemi che c’erano, la casa, il riscaldamento, la benzina, i copertoni per le biciclette e ne sanno qualche cosa la Laura e la Liliana che cosa ha voluto dire la distribuzione dei copertoni. Per quanto riguarda il riscaldamento, vorrei che chi c’era, andasse con la memoria al viale Bologna, il viale dei Tigli era chiamato, alla fine della guerra non c’era più niente perché tutti si erano dovuti arrangiare per scaldarsi. La stessa cosa era per quanto riguardava il mangiare. Lo diceva prima Vecchiettini, loro sono stati i primi a sminare. Ma teniamo conto che non si era seminato, perché, a parte le mine, c’era la guerra, poi, nel momento che si doveva seminare, la stagione era contraria, era piovosa, e non c’erano i mezzi per arare. I trattori erano pressochè inesistenti, quindi il problema dell’alimentazione, era un problema, veramente di prima necessità. L’onorevole Servadei, diceva come si andasse coi soldi contanti, perché non è che si prelevasse nei magazzini. Ricordo che quando andavamo a Napoli, si partiva con sette otto camion a rimorchio, per arrivare a Napoli ci volevano 27 , 28 ore di strada, perché non tutte le strade erano agibili, i camion erano molto lenti. Il servizio ispettivo andava di scorta perché non è che la società in quel momento fosse una società calma. Io ricordo una sera verso Balzorano fummo seguiti da macchine e poi tentarono anche di fermarci, solo che quando partivamo eravamo dotati anche di armi automatiche, che ce le forniva la questura e mandava un agente, perché questo servizio ispettivo era comandato dal maggiore di finanza Filippo Brizio, ed era lui che firmava la ricevuta per la consegna delle armi, e dico quella sera ci fermarono e noi per essere sicuri sparammo 4, 5 raffiche per aria e vedemmo le macchine che avevano bloccato la strada partire, che forse una partenza così, non l’avrebbe fatta nemmeno Schumaker, quindi la paura dà degli aiuti, in queste cose.
Quale era il nostro compito. C’era una situazione di emergenza, lo sciacallaggio, la speculazione il mercato nero, erano all’ordine del giorno, quindi dovevamo fare dei controlli. Controllo ai mulini, controllo ai pastifici, controllo ai frontoi per l’olio, certo era una cosa abbastanza difficile, perché bisognava anche avere l’equilibrio di distinguere il controllo che si poteva fare in un mulino a cilindri dove si potevano macinare centinaia di quintali di grano nelle ventiquattro ore, e il mulino disperso là in un rio magari con una macina di poche decine di chili, faceva un quintale in ventiquattro ore. Io ricordo un particolare, me lo sono sempre ricordato, una volta passammo da Santarcangelo, che dovevamo fare un controllo al mulino lì vicino a Santarcangelo, quando arrivammo c’era una coda di donne lunghissima, e avevano appena finito di mietere e queste donne erano andate a spigolare come facevano tutte, stavano una giornata là sotto il sole, per poter avere non so sette, otto, dieci chili di grano, noi c’era sta lunga fila ripassammo quando non c’erano più, perché altrimenti avremmo dovuto chiedere da dove veniva il grano tutte ste cose qui, ma a un certo punto eravamo addetti alla vigilanza ma eravamo anche soprattutto degli uomini. Ecco di questo servizio io ne ho voluto parlare, perché credo sia stato un contributo a stroncare il mercato nero, il mercato nero non lo dobbiamo considerare quello che comperava un chilo, mezzo chilo di pane, era quello che si faceva coi camion, purtroppo debbo dir questo che speculava di più, era chi faceva i viaggi, chi aveva dei camion a disposizione, ed erano i soldati polacchi che erano rimasti qui, molto più a lungo rispetto ad altri soldati, ed erano quelli che ci davano molto da fare, tant’è vero che una sera a San Benedetto, ci spararono, e vi dico la verità io ho potuto constatare, che non è una esagerazione quando nei film dicono che si sentono le pallottole fischiare, le pallottole vicino agli orecchi fischiano veramente, non è un modo di dire, e la paura era notevole, però vi dico abbiamo anche rischiato perché era un servizio che comportava dei rischi, e tante volte li abbiamo svolti insieme con gli agenti annonari che ogni comune aveva, anche il comune di Forlì li aveva, gli agenti annonari. Quindi è una modesta testimonianza, ma la testimonianza di un servizio che ha contribuito nel suo piccolo alla ricostruzione e a dar la possibilità di dar da mangiare alla popolazione. Grazie”.
Leo, nell’immediato dopoguerra, politicamente era orientato su posizioni repubblicane, seguiva uno dei capi della Resistenza Ferruccio Parri. Il 28 febbraio 1948 quando a Forlì si costituì il Fronte democratico popolare portò l’adesione del Movimento Italiano per la Laicità dello Stato e si impegnò nella campagna elettorale a favore del Fronte Popolare.
Nel 1949 venne eletto a far parte del direttivo della Camera del Lavoro di Forlì. Fu dirigente del sindacato mezzadri che all’epoca contava oltre 39 mila iscritti ed era impegnato in durissime vertenze per superare il contratto di mezzadria. Fu poi eletto nel Consiglio Nazionale della CGIL.
Nel 1955 si sposò con Maria Monti, dopo un fidanzamento durato tredici anni, e dalla loro unione nacque il figlio Carlo.
Alla fine degli anni Cinquanta si impiegò nella Federazione Nazionale della Caccia (Federcaccia), organizzazione che contava decine di migliaia di iscritti. Lavoro che svolse fino all’età della pensione e gli fece acquisire grande esperienza nel rapporto con i ragazzi delle scuole ai quali spiegava le specie animali presenti nel nostro territorio.
Dagli anni Cinquanta fu un appassionato militante del partito comunista e attivo nell’associazionismo e nei comitati di quartiere. Nel 1989 si schierò contro il cambiamento del nome del Partito comunista italiano e aderì poi a Rifondazione comunista di cui fu dirigente e rappresentò nel Consiglio comunale dal 2004 al 2009.
Dalla fine degli anni Ottanta fu dirigente dell’Associazione Nazionale Partigiani e ne divenne presidente nel 2001 succedendo a Angelo Satanassi. Da presidente dell’ANPI svolse una intensa attività didattica e partecipò a centinaia di incontri con gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado affascinando i ragazzi alla storia della Resistenza per la passione, la preparazione e la capacità di dialogo.
Leo Matteucci fu anche un apprezzato autore di poesie dialettali. Così nella breve autobiografia racconta la scoperta di questa vena poetica. “Un giorno dei primi anni Sessanta scoprii una cosa che mi sorprese: la capacità di saper scrivere qualche cosa in versi. Mi trovavo assieme all’amico Ely Neri, noto musicista oggi scomparso, e ci capitò di ascoltare quattro amici che giocavano a “marafone”; di loro ci colpirono il linguaggio, le battute e prese in giro. Ely mi disse “senti che roba, sarebbe bello scriverci sopra una canzone; dai butta giù le parole, che le musico” Così fu…”
Vladimiro Flamigni