Sovversive

Il libro “Sovversive” di Alba Piolanti porta alla luce la storia delle 47 donne della provincia di Forlì-Cesena schedate dal regime fascista nel Casellario Politico Centrale. L’autrice le divide in tre grandi categorie che corrispondono al pretesto e alla condanna che hanno determinato la loro schedatura: Donne linguacciute (Donne assai linguacciute e di dubbia condotta morale); Le fuoriuscite (Iscritte alla Rubrica di frontiera per il provvedimento “da perquisire, segnalare, vigilare, arrestare”); Le comuniste, le repubblicane, le socialiste, le anarchiche, le antifasciste, pubblicamente ritenute sovversive ed avversarie al Regime.
Il Casellario Politico Centrale vide il suo nucleo originario nello Schedario dei Sovversivi, ovvero lo “schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi maggiormente pericolosi nei rapporti dell’ordine e della Pubblica Sicurezza” nato dopo l’introduzione delle leggi eccezionali a seguito dell’insurrezione dei fasci siciliani e dei moti anarchici in Lunigiana del 1894 e che presentava già un’identificazione segnaletica e fotografica. Nel 1896, con la circolare numero 5343 del 1° giugno, nacque il Casellario Politico Centrale, in cui furono schedati complessivamente 147.584 uomini e 5.005 donne. Con la nascita dell’OVRA, ovvero la polizia speciale per i crimini contro lo stato e il fascismo, videro la luce altri centri di classificazione. L’OVRA svolse un’azione preventiva molto efficace attraverso una fitta rete di informatori di tutte le classi sociali, che svolgevano questo “compito” perché fermamente convinti, perché ricattati o semplicemente per denaro. La figura dell’informatore è presente anche nel libro, soprattutto nella parte dedicata alle “Donne linguacciute”, cioè quelle donne accusate da altri di aver pronunciato affermazioni ingiuriose contro il Duce o il fascismo in generale. L’esempio più interessante riguarda Leoni Emma: nel suo caso il vigile urbano, che redige la denuncia, dichiara che “non consta personalmente quanto ha riferito”, ovvero che Leoni faccia propaganda disfattista presso i clienti del suo negozio e che ascolti le stazioni radiofoniche nemiche, in quanto “le ha sapute tramite suo padre che saltuariamente si reca in tale negozio”.
Al lavoro di classificazione e di allestimento delle schede erano generalmente preposti uomini della classe politica dominante e quindi fiduciosi nello Stato, nel ruolo disciplinante della famiglia autoritaria e nella funzione pedagogica del partito. Dunque dalle schede biografiche del Casellario Politico Centrale, e quelle prese in esame da Alba Piolanti non fanno eccezione, trapela l’ideologia e la mentalità fascista riguardo alle donne.
Il fascismo cercò di restaurare un ordine di genere di tipo tradizionale patriarcale che era stato messo a soqquadro dalla Prima Guerra Mondiale e dal difficile dopoguerra. Secondo quest’ordine l’uomo doveva essere guerriero, capo famiglia e padre di tanti figli. Questo concetto portò alla tassa sul celibato e ad alcune normative che prevedevano che la condizione di marito e padre fosse requisito necessario per fare carriera in determinate professioni e per accedere ad alcune. La donna doveva essere esclusivamente “madre e moglie”. Per realizzare ciò furono varate una serie di leggi che fra il 1923 e il 1938 esclusero le donne da determinate occupazioni, sfociando poi nel divieto totale di lavoro nelle piccole imprese e nell’indicazione del 10% come limite massimo della presenza femminile nelle imprese medio-grandi. Veniva in questo modo affermata l’inferiorità giuridica della donna, che non doveva assolutamente considerare il lavoro come un suo diritto. A questa legislazione si affiancarono misure assistenziali ed incentivi per favorire la maternità, come detrazioni fiscali, premi, erogazione di servizi, creazione di appositi istituti, di cui il più conosciuto è l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia).
Da metà degli anni Venti iniziò una vera e propria politica pro-natalista, in quanto la crescita demografica rispondeva sia all’esigenza di avere tanta mano d’opera a basso costo sia alla logica propria di una nazione che puntava ad un’espansione imperialista. Per realizzare ciò, dal 1926 lo Stato proibì l’uso degli anticoncezionali e di qualsiasi forma di educazione sessuale e fece diventare l’interruzione di gravidanza un delitto contro la stirpe.
Questa visione dicotomica del mondo in cui la donna era considerata inferiore all’uomo venne trasmessa dal regime fascista anche attraverso la propaganda e la socializzazione politica delle giovani generazioni nelle scuole e nelle varie organizzazioni ricreative. Nel decalogo della Piccola Italiana, destinato alle bambine di 6-8 anni si poteva infatti leggere: “la patria si serve anche spazzando la propria casa” e “la disciplina civile comincia dalla disciplina familiare”. Inoltre fra il 1935 e il 1936 fu introdotto nella scuola l’insegnamento di puericultura (cioè di come si allevavano i figli) per le bambine e l’insegnamento di elementi di cultura militare per i bambini.
È quindi facile capire che nella società fascista qualsiasi donna il cui abito o il cui comportamento violasse le norme che la confinavano nel matrimonio cadeva facilmente vittima dei moralismi. Dunque chi compilava queste schede biografiche rimaneva molto colpito da una donna che non era aderente ai modelli imposti dal fascismo, oltre che dalle anomalie che distinguevano le oppositrici dalle “donne normali” votate esclusivamente alla missione della maternità. Si era perciò bollate come sovversive in quanto non conformi alla morale dominante, soprattutto se appartenenti al ceto basso, come risulta molto evidente nelle storie raccontate da Alba Piolanti.
Esisteva quindi una stretta relazione tra la condotta morale e civile della donna segnalata, spesso definita “prostituta”. È necessario ricordare che il regime fascista condusse una battaglia contro le prostitute: fin dal 1923 la polizia aveva ordinato a tutte di provvedersi di uno speciale documento che riportasse i risultati del controllo medico sulle malattie veneree e dal 1926 ci furono retate contro le prostitute che esercitavano in strada, oltre che l’apertura delle case chiuse controllate dallo Stato. In questo modo lo Stato separò il sesso illegittimo da quello legittimo: il primo doveva essere segregato e tenuto lontano dagli occhi del pubblico, mentre il secondo doveva svolgersi all’interno del matrimonio a fini procreativi. Veniva altresì tracciata una netta linea di demarcazione tra le donne buone e le donne cattive. Le donne del libro vengono definite prostitute non tanto perché lo fossero (ad eccezione forse di Barbieri Adelmina, che “si dice… dedita alla prostituzione clandestina, per cui venne più volte rimpatriata con foglio di via obbligatorio da varie Questure del Regno”), ma in quanto compagne non sposate di un sovversivo, oppure perché già sposate ma compagne di un uomo diverso, oppure perché frequentatrici di compagnie politiche maschili. D’altronde in Italia il fidanzato era considerato il promesso sposo: non c’era possibilità di mettersi insieme per coppie che non fossero certamente o almeno probabilmente destinate al matrimonio.
Questo aspetto ci fa capire che la donna veniva sempre definita in relazione all’uomo, quindi non la si considerava come un soggetto pensante, capace di agire, soprattutto in ambito politico. La donna sovversiva non faceva eccezione; infatti, raramente veniva ritenuta capace di scegliere. Si pensava che avesse abbracciato la fede del marito o del compagno e anche le testimonianze raccolte da Alba Piolanti lo dimostrano, facendoci quasi credere che queste donne fossero un po’ “stupide”. In realtà, leggendo i documenti si capisce che non lo erano assolutamente; infatti, erano donne che viaggiavano, che attraversavano il confine, che leggevano, che si informavano e che conoscevano molto bene la situazione sia italiana che estera. Molte donne citate nel libro, soprattutto le “fuoriuscite”, iniziarono a essere studiate non tanto perché colpevoli di qualcosa ma in quanto figlie, sorelle, compagne di qualcuno e vennero quindi sottoposte alla pena in conseguenza delle loro “relazioni pericolose di tipo parentale”. Fra quelli proposti il caso più noto è forse quello di Nenni Giuliana, che fino al 10 febbraio 1937 venne vigilata solo in quanto figlia del “noto pericoloso socialista Nenni Pietro”; infatti, solo dal 1939 il Regime ebbe la prova certa di un suo effettivo impegno.
Il matrimonio svolgeva nella società fascista un ruolo centrale, soprattutto per una donna, in quanto solo all’interno della famiglia, in virtù dei legami di sangue, i cittadini acquisivano il rispetto che il diritto riconosceva loro in quando padri o madri di famiglia. I Patti lateranensi del 1929 e la Casti connubii di Pio XI collocarono l’istituzione matrimoniale in una posizione preminente; il regime abbassò l’età minima del matrimonio sia per le donne che per gli uomini e l’età per la quale era necessario il consenso dei genitori, inoltre istituì per le nuove coppie prestiti e sovvenzioni per gli abiti nuziali e sponsorizzò fastosamente le cerimonie di gruppo. Il ruolo normalizzante del matrimonio emerge nel libro dalle schede biografiche di Melandri Virginia e di Masotti Elena. La prima fu radiata dal novero dei sovversivi “avendo dato prova concreta di ravvedimento politico” nel febbraio del 1941; ravvedimento, come sottolinea l’autrice, legato probabilmente al suo matrimonio con Vignoletti Alvaro, iscritto fin dal 20 novembre 1926 al Partito Nazionale Fascista; per la seconda la Prefettura di Forlì chiese la radiazione dal novero dei sovversivi in quanto “si dedica esclusivamente alla famiglia ed al lavoro, disinteressandosi di politica”. Per la precisione si era sposata con Vallicelli Giuseppe, che per quanto non iscritto al Fascio era comunque “ossequiente alle direttive del Governo Nazionale” ed aveva dei fratelli iscritti al partito.
Infine nel libro della Piolanti si vede come nelle schede biografiche fosse data grande importanza agli aspetti fisiognomici, spesso coadiuvati dai supporti fotografici. L’esteriorità infatti diventava spesso simbolo di qualità morale e di colpevolezza. Bisogna inoltre ricordare che durante il fascismo il corpo femminile era considerato una questione di stato perché la sanità dei singoli corpi contribuiva al benessere della nazione. Nel 1931 il capo dell’Ufficio Stampa di Mussolini ordinò ai giornali di eliminare le immagini femminili troppo magre e mascolinizzate che rappresentavano tipi femminili sterili e nel 1937 il concetto fu ribadito dalle direttive per la stampa emanate dal Ministero per la Cultura popolare.
In conclusione il regime fascista cercò di controllare qualsiasi aspetto della vita della donna; infatti, prendendo le mosse dall’assioma della diversità naturale tra uomo e donna, affermò la diversità in tutti i campi a vantaggio dell’uomo. Su questa base creò un sistema particolarmente repressivo e pervasivo: ogni aspetto della vita della donna fu commisurato agli interessi dello Stato e della dittatura. Tutto ciò non assunse però forme violente e per questo l’apparente normalità della limitazione delle libertà femminili la rese particolarmente insidiosa.
Le donne che fecero la scelta della Resistenza dunque “furono ribelli due volte”. Si ribellarono infatti non solo al regime fascista, ma anche all’ideologia sessista che il fascismo aveva rafforzato in una società patriarcale come quella italiana nella quale, anche per influenza del cattolicesimo, la donna era costretta nei ruoli di figlia, sorella, moglie e madre.
Non ho parlato nel mio intervento delle donne nella Resistenza perché il lavoro di Alba Piolanti si ferma prima del 1943. Voglio perciò concludere ricordando tutte coloro che riuscirono grazie al loro impegno, al loro coraggio e in molti casi alla loro vita a garantire a noi donne il fondamentale diritto di voto e di essere elette. Il 2 giugno 1946 le donne andarono in gran numero a votare e 21 di loro furono elette all’Assemblea Costituente: 9 comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste e una appartenente alla lista dell’Uomo Qualunque. Cinque delle ventuno neo deputate entrarono a far parte della “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea Costituente di formulare la proposta di Costituzione da dibattere e approvare in aula. La presenza delle donne sia in aula che nelle Commissioni ebbe un peso maggiore di quanto le basse percentuali indicassero. Questo perché, consapevoli di avere solo quell’occasione per cambiare l’Italia e la condizione femminile sotto il profilo giuridico, le donne fecero sistema e riuscirono, scontrandosi anche coi partiti di appartenenza, a fare inserire in Costituzione il fondamentale principio di uguaglianza, in un momento in cui neanche il codice civile lo prevedeva. A un collega uomo che lo fece notare, una delle deputate rispose: “Non si preoccupi… cambieremo anche quello!”.