di Francesco Satanassi
La storia Balilla Gardini, soldato di fanteria che, dopo l’8 settembre, fu disarmato e internato nei campi di concentramento nazisti. Nonostante la possibilità di tornare libero “firmando per la R.S.I.”, scelse, insieme ad altri 600.000 italiani, di soffrire la fame e le torture del lager. È la storia dimenticata degli I.M.I.
L’8 settembre del ’43 fu una data storica per l’Italia, dopo la caduta del Fascismo del 25 luglio e l’illusione di una ritrovata libertà, smorzata dal proclama di Badoglio per il quale “la guerra continuava a fianco dell’alleato tedesco”, l’armistizio con la forze anglo-americane illuse che il conflitto mondiale fosse ormai giunto al termine. Dopo aver annunciato che “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”, lo stesso Badoglio, insieme al Re e ai Capi di Stato Maggiore dell’esercito, fuggì verso il sud ormai liberato, senza impartire alcun ordine al già martoriato esercito, sparpagliato su più fronti e letteralmente abbandonato a se stesso. Ufficiali, sottufficiali e truppa si trovarono perciò isolati, con l’improvvisa notizia che il nemico era cambiato, non più gli inglesi, ma il tedesco che da tempo, sebbene militarmente alleato, mostrava la propria superiorità e prepotenza ai soldati italiani, arruolati in una guerra che mai avevano sentito propria, senza la giusta preparazione, l’adeguato equipaggiamento e gli adeguati armamenti. L’immagine del uomo invincibile in cui era cresciuto il soldato italiano durante il Ventennio, frutto di una propaganda volta a creare miti senza fondamento, si era infatti sbriciolata nel momento in cui l’esercito si era scontrato con la dura realtà del fronte, nella completa disorganizzazione e precarietà tipica di un Fascismo millantatore.
Già nel febbraio del ’42, in una lettera alla moglie, il soldato forlivese Balilla Gardini rende l’idea delle difficoltà in cui versava l’esercito italiano ogni giorno, anche nelle cose più semplici.
“Per fortuna è arrivato anche il secondo pacchetto da mezzo chilo, il salamino era guasto, ma non dubitare che non l’ho buttato, con la fame che abbiamo l’avrei mangiato anche se era in più cattive condizioni (…) Il mangiare che ci danno è poco, e qui non si trova niente (…) Di notte fa molto freddo e bisogna dormire uno sull’altro per sentirlo meno”.
La conseguenza del proclama badogliano fu immediata: la superiorità organizzativa e militare dell’ex alleato fece scattare l’Operazione Achse, con l’immediata occupazione del suolo italiano, il disarmo dell’ormai sbandato esercito e il suo internamento nei campi di concentramento tedeschi. Così avvenne anche fuori dai confini italiani, come in Grecia, dove interi reparti imbastirono con i tedeschi furiosi combattimenti (sulle isole di Cefalonia e Corfù i nazisti compirono un vero eccidio). Tra gli italiani ci fu chi abbandonò la divisa e si unì ai partigiani greci, chi si nascose tra la popolazione e chi, la stragrande maggioranza, fu disarmato, catturato e deportato con la menzogna di un rimpatrio dopo la consegna delle armi. Così, mentre gli anglo-americani si apprestavano a risalire la penisola e i tedeschi organizzavano la liberazione di Mussolini e la creazione dello Stato-fantoccio della R.S.I., 700.000 soldati italiani caddero nelle mani dei tedeschi.
Balilla Gardini
L’8 settembre, Balilla Gardini si trovava in Grecia, nei pressi di Zaverda, inquadrato come soldato semplice nel 12° Reggimento Fanteria “Casale”.
“Un’improvvisata ci reca il Comandante della Compagnia con in mano un fonogramma della resa delle armi in armistizio dell’Italia. La notizia desta la gioia di noi tutti, seppure che il pensiero vada ai tedeschi che non sappiamo quale contegno avranno a nostro riguardo”.
Due giorni dopo, Balilla e i suoi compagni vengono disarmati e fatti partire a piedi e su carri bestiame con la promessa di un rientro in Italia.
“Diventa sempre più critica, le guardie ci tengono sempre chiusi perciò i nostri servizi personali dobbiamo farli in qualche recipiente e gettarli dalla feritoia del carro.”.
Il primo “No” al Fascismo, Gardini lo pronuncia in quei giorni, lungo la strada per la Germania, quando l’illusione di un rimpatrio è ormai svanita.
“Ci rende visita un ufficiale italiano il quale chiede chi vuole andare coi tedeschi volontario, del mio carro nessuno aderisce, tutti siamo decisi a non andare coi fascisti, succeda quel che vuole.”
Stessa cosa il 12 ottobre, quando nel suo diario annota
“Entriamo in territorio tedesco, ovunque siamo offesi e derisi ma pazienza, noi rimarremo della nostra idea, non aderiremo ad andare coi fascisti!”.
Lungo il viaggio, i tedeschi compiono soprusi e furti ai danni dei soldati italiani: anelli, orologi, sigarette vengono requisiti.
“Uno che protesta perché ci hanno portato via la fede nuziale viene colpito vigliaccamente da una moschettata alla testa. Compiuto simile gesto, le guardie se ne escono ridendo”.
Giunti al campo di concentramento di Wietzendorf (successivamente Gardini verrà trasferito ad Allendorf, Fallingbostel e in una sezione per prigionieri di guerra di Bergen-Belsen) Balilla e i suoi compagni apprendono che la vita del prigioniero italiano sarà differente da quella degli altri rinchiusi. Hitler etichettò infatti i soldati italiani come I.M.I. (Internati Militari Italiani) non concedendo loro lo status di ‘prigioniero di guerra’ e la conseguente assistenza internazionale riconosciuta per diritto di prigionia. Niente Croce Rossa, niente visite nei campi, nessun cambio d’abito, pulizia o igiene personale. Il tedesco mirava a vendicarsi del tradimento italiano con la tortura, la fame, il freddo e la promessa di liberazione immediata in caso di arruolamento “volontario” nelle fila del nuovo esercito di Mussolini. Dei 700.000 catturati e internati, 600.000 risposero “No” e preferirono i reticolati e le angherie alla “libertà”, definendo una – purtroppo ancora poco conosciuta – forma di Resistenza che impedì a Hitler di sfruttare militarmente una moltitudine di uomini, e che portò alla morte di almeno 50.000 di questi per fame, freddo e omicidio. Nei campi in cui transitò, Gardini lavorò spesso come barbiere, il suo mestiere, mantenendo il suo ideale di rifiuto al Fascismo.
“Mi metto a lavorare, guadagno sigarette che mi serviranno per comperare patate dai prigionieri che vanno a lavorare dai contadini, però bisogna stare attenti a cucinare perché le guardie dove trovano fuochi accesi rovesciano tutto e picchiano come dannati. Tutte le mattine c’è il solito discorso propagandistico fatto da un ufficiale in divisa da fascista che ci esorta ad aderire, molti costretti dalla fame cedono, noi teniamo duro, piuttosto moriremo di fame, oramai abbiamo deciso”.
Medaglia d’Onore
La condizione di I.M.I. trasformò gli italiani in veri e propri schiavi in mano a Hitler, che li utilizzò nel lavoro forzato delle industrie e miniere. Spogliati di ogni diritto, sfruttati fino alla morte, sottonutriti, picchiati e umiliati costantemente, gli internati italiani presero coscienza di ciò che il Fascismo era stato per i giovani: un’illusione che li aveva traditi e imprigionati, facendo crescere in loro la consapevolezza di una libertà da ottenere anche con la morte nel lager, rifiutando di andare a ingrossare le fila del nemico o attuando piccoli atti di sabotaggio sul lavoro. Molti morirono senza tornare a casa, con poche notizie provenienti dall’Italia, dove le forze partigiane stavano organizzando una Resistenza parallela alla loro. In una delle ultime pagine del diario, con calligrafia indecisa, Balilla racconta una giornata di “lavoro” fuori dal campo.
“Sveglia alle 4 del mattino, chi indugia un attimo per alzarsi viene frustato di santa ragione. Adunata fuori per l’appello. Il freddo è pungente, rimaniamo inquadrati sino alle 6, siamo gelati dal freddo, finalmente si parte per il lavoro. Arriviamo sul posto alle 8 del mattino, abbiamo fatto 9 km a piedi, il brutto comincia adesso, ci vengono distribuiti picconi e badili e giù in un canale profondo 6 metri a scavare. Non ho mai fatto un lavoro così pesante non sono abituato, cerco di fare alla meglio per scansare qualche legnata. Finalmente arriva mezzogiorno, tutti aspettiamo che ci diano qualcosa da mangiare ma le speranze sono vane, ci fanno riposare mezzora al freddo, indi di nuovo giù a scavare. La giornata è interminabile, i piedi sono sempre bagnati dall’acqua che penetra nelle scarpe. Alle 17 si cessa e si riparte per il campo, altri 9 km a piedi con quella stanchezza e la fame, da ieri a mezzogiorno non mangiamo, si mangia una volta al giorno, più di questo non ci danno. Così si susseguono le giornate, la temperatura diventa sempre più fredda, non c’è giorno che non piova, anche se venisse giù il cielo il lavoro non viene interrotto. Si vedono scene che fanno pietà, gente che va a cercare nei rifiuti delle immondizie qualche buccia di patate o rape per potersi sfamare, gli ammalati aumentano ma difficilmente vengono riconosciuti dal medico tedesco se non sono in condizioni gravi. Chi ha febbre sino a trentotto gradi sarà punito e dovrà andare a lavorare. Bastonate e punizioni terribili per cose di lieve entità, offese, imprecazioni e minacce sono cose comuni. Senza parlare dei civili, donne, uomini o bambini tutti sono contro di noi. Di 400 che eravamo, dopo un mese di lavoro siamo rimasti 120. Per proteggermi le mani dal freddo e dai calli che si sono aperti ho tagliato i risvolti del cappotto e ho fatto un paio di rudimentali guanti La sera chiedo visita, ho 38 e 5 di febbre. Vengo pesato: kg 48,2 sono ancora tra i più grassi”.
Dopo venti mesi di prigionia, Balilla Gardini fu liberato dagli inglesi e poté finalmente riabbracciare la sua famiglia a la sua Forlì. Sopravvisse al lager grazie alla forza di volontà che, come lui, animò altri 600.000 italiani. Nel 2014, suo figlio Mauro, oggi settantenne, ricevette numerose medaglie e attestati in memoria del padre, che rifiutò di servire il l’invasore tedesco e non collaborò con la R.S.I. durante la Resistenza. La storia di Balilla Gardini diventerà un libro.